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mercoledì 3 agosto 2011

Presenziare il passato


Nell’ultimo decennio il modo di pensare degli individui è cambiato radicalmente. Tanti sono gli aspetti che si potrebbero analizzare, ma quello che risalta di più, è quella tendenza che sta contagiando tutti: la tendenza del “fare presenza”. Bisogna essere sempre da qualche parte. Bisogna essere presenti sul web, essere presenti nei locali giusti, essere presenti a ferragosto sulle spiagge. Le famose domande, “essere o non essere” e “avere o essere” hanno perso tutta la loro bellezza, sono invecchiate, il tempo, la società, le hanno deturpate del loro valore, sono collocate in un mondo atavico, che ormai si è evoluto, e assieme a lui, si sono evolute anche le domande (che nessuno si pone più!). Oggi, la domanda giusta sarebbe quella di chiedere “dover esserci o non dover esserci”, nel senso: bisogna o non bisogna “presenziare ” una determinata situazione?

Perché bisogna esserci? Perché mentre siamo in un posto, già pensiamo a dove andare dopo? Perché si vive con l’ansia del “non esserci” e quindi, di conseguenza, dell’essere escluso? Tutto ciò si può racchiudere dicendo che viviamo nella società del “futuro immediato”. Non si pensa al futuro, nel senso più ampio del termine, si pensa in previsione di un futuro, che tranquillamente, potrebbe esser confuso col presente. Il futuro è il presente che incute timore. Lo incute per necessità, e l’esigenza è quella di voler cambiare il tempo, e soprattutto le prospettive di vita legate al tempo stesso. Se confondiamo il futuro con il presente, e il presente con passato, certamente non c’è futuro! Vi siete persi? Forse sì!

Nessuno deve pensare al vero futuro, altrimenti ci renderemmo conto che non esiste, è qualcosa che esisteva, ma che è già divenuto passato. Allora bisogna sostituirlo, almeno in apparenza, e illuderci che il presente sia già futuro. Insomma è un sistema di controllo per non pensare. Per restare sulla nave, diretti verso un presente d’illusione, illudersi di essere presenti! Illusione di presenziare la vita. Non pensare al domani, non pensare a ciò che avverrà, non bisogna pensare che ci sia vita anche sulle sponde, a riva, al di fuori di questa nave destinata all’abisso, chiamata “società”, fatta di paure, di marche da bollo, di destino predeterminato, corsie d’ospedale, batteri, di carrelli traboccanti d’inutilità, di sentimenti comprati su e-bay, di amore come status da social network.

venerdì 29 luglio 2011

Zucchero, un soffio caldo nella notte di Cosenza


Ieri sera Zucchero Fornaciari sbarca allo stadio San Vito di Cosenza con il suo “Chocabeck World Tour”. Alle ore nove e trenta lo spettacolo ha inizio. Il palco ha la forma di una vecchia valigia, quelle valige di cartone che rievocano i tempi e il mondo passato. La valigia si apre, quasi fosse un sipario, sul palco, seduto su un trono appare Zucchero, con cappello e gilè. Assieme a lui, altri undici elementi che comprendono anche una sessione fiati, e quella degli archi.

La prima canzone è “Un soffio caldo” scritta assieme al conterraneo, e amico, Francesco Guccini. Il concerto si divide in due parti, nella prima, Zucchero segue la scaletta del suo ultimo album “Chocabeck” suonando gli undici brani che lo compongono. Scelta giustissima, essendo “Chocabeck” un concept (prodotto dallo stesso Zucchero assieme a Don Was e Brendan O’Brien), che racconta storie, profumi, atmosfere di un paesino, quello nel quale Zucchero è nato e cresciuto. È il racconto di un tempo lontano, una ricerca di ciò che si era, un Amarcord di sensazioni passate, un omaggio a chi non c’è più, una ricerca del tempo perduto, della fanciullezza volata via. Il palco a forma di valigia è metafora di tutto ciò, di qualcosa che è contenuto nei ricordi, di una valigia impolverata messa da parte, nelle soffitte della memoria, ma quando la si apre, si sentono le voci che ritornano a vivere, i colori di ciò che fu. Questa prima parte possiede un’atmosfera quasi teatrale, suggestiva, canzoni come “Il suono della domenica”, “Oltre rive” incantano gli spettatori del San Vito. Poi è la volta di un’intima e meravigliosa “Spicinfrin boy” sulla quale, una ragazza del pubblico dai capelli strani, abbraccia suo padre piangendo. In questa prima parte Zucchero dedica un brano a Amy Winehouse. Ma non mancano anche in questa prima parte momenti che scatenano il pubblico, quando Sugar parte con “Vedo Nero”, anche quelli del settore poltronissima balzano in piedi e ballano.

Nella seconda parte, la scaletta diventa un misto dei grandi successi di Zucchero, da “Baila” a “Diamante”, da “Dune Mosse” a “Solo una sana e consapevole libidine…”. I musicisti suonano a ritmo serrato, senza esitare mai. Grande performance del pianista David Sancious(ex pianista di Bruce Springsteen). Durante questa seconda parte, dal cielo sopra Cosenza iniziano a scendere gocce di pioggia, o forse erano solo le lacrime di Dio anche lui emozionato per come Zucchero sa trascinare anime e corpi oltre le sponde della musica? Ma il pubblico del San Vito non si scoraggia, si estraggono ombrelli e k-way, nessuno va via, nessuno bada alla pioggia, si continua a ballare e cantare. Ed è sulle note di “Miserere”, quando sui monitor appare Luciano Pavarotti, che il cielo di Cosenza, magicamente si apre: appaiono le stelle. Alcuni ragazzi notano le stelle in cielo, e ne restano incantati. Zucchero non si sottrae al pubblico, dopo essere sceso dal palco, risale e partono i bis, tra le canzoni che chiudono il concerto, ci sono: “Hey man”, “Un kilo”, “Così celeste”, per chiudere con “Per colpa di chi?”. Il bluesman emiliano ringrazia, è contento dell’accoglienza, del pubblico caloroso e bello. La valigia torna a richiudersi, e il concerto volge al termine. Nello stadio si accendono le luci, la gente, chi sorridente, chi estasiata, chi persa, esce dallo stadio per tornare a casa dopo due ore di buona musica.

mercoledì 20 luglio 2011

Modalità offline ovvero le metropolitane non sono Dio


Una volta parlai con un uomo, il quale aveva vissuto per oltre dieci anni in una città come Milano. Dopo tutto quel tempo trascorso in quel luogo chiamato alta – Italia, decise di ritornare al suo paese d’origine in Calabria. Di certo non tornò per una questione economica, visto che guadagnava bene, svolgendo un lavoro che gli recava molte soddisfazioni. E soprattutto, era consapevole di lasciare un qualcosa, che tutti gli altri definivano un punto d’arrivo. Bene! Lui abdicò il suo punto d’arrivo, e tornò a casa, nella sua terra, consapevole di dover ricominciare nuovamente da zero. E quando gli chiesi il perché l’avesse fatto, quell’uomo mi disse i tanti perché. Ma tra tutte le motivazioni che mi diede, quella che riassume meglio tutte le altre, è quella della “metropolitana”. Ovvero, quell’uomo rientrando ogni sera dal lavoro in metropolitana, e guardandosi attorno, tra tutte quelle facce stanche, alienate, aveva deciso di fuggire. Consapevole che se un domani avesse avuto un figlio, non avrebbe voluto che il suo ragazzo nascesse in quel posto, in quella città, tra quelle facce avvilite.

Tralasciando il rapporto di parentela che mi lega a questo signore, posso semplicemente dire che condivido la sua scelta. Negli ultimi tempi, mi è capitato di parlare con alcuni amici che hanno deciso, o che stanno per decidere, di voler lasciare la metropoli per tornare alla terra d’origine. Questo non è un discorso sulle metropoli degno di un comune manuale di sociologia; è un discorso diverso. Diverso da cosa? Non lo so! Vorrei riflettere sul concetto di terra e di appartenenza. Credo, e ne sono convinto, che solo la terra nella quale sei nato e nella quale hai trascorso parte della tua vita - le fasi più importanti (fanciullezza e adolescenza) – possa darti quella giusta carica che ti permette di riflettere. O meglio, più che carica la definirei una sorta di ossigenazione al cervello. Non si può riflettere ovunque! È l’ambiente che ti circonda che influenza il pensiero. Riflettere sul suolo d’origine è diverso dal riflettere in una metropolitana. Le metropolitane! Sicuramente ci sarete stati.

Saranno affascinanti le metropolitane? Di certo lo sono, se non sei abituato alla loro presenza. Magari se vivi in un posto nel quale l’unico mezzo pubblico è il postale, e poi capiti in una città nelle vesti da turista, e direi anche (per usare un termine fantozziano) nelle vesti da coglionazzo, corri il rischio di farti affascinare da quell’ambiente. Ma se invece la metropolitana diventa parte integrante della tua quotidianità, sicuramente non si guarderà più come un posto affascinante. Nelle ore di punta, è facile vedere nei vagoni della metropolitana delle facce alienate per usare un termine ottocentesco. Credo che non abbia più senso parlare di alienazione. Userei un nuovo termine al posto di alienazione, userei Offline. Quelle persone, quelle facce, sono offline. Magari solo qualche pensiero su come trascorrere le vacanze, un pensiero su quanto costano i canili per i propri figli, quei posti dove lasciare i bambini e stare tranquilli che c’è qualcuno che bada a loro, che gli fornisce il pastone. Qualche pensiero sulla rata della macchina e al mutuo, pensieri come sbarre di prigione, e l’unico sollievo, magari, è quello di pensare “Sì, però quest’estate vado su qualche isola a rilassarmi! E dopo tutto, la rata della macchina non è alta, considerando che ho fatto un affare, visto che mi fa 20 a litro. E poi, sai che ti dico? meglio pagare il mutuo, piuttosto che l’affitto!”.

Ma in questa era iperbolica, fatta di connessioni, diete dimagranti, chirurghi plastici, agenti di borsa, borse di agenti, che cos’è un rivoluzionario? Esistono ancora i rivoluzionari? Se pensate a tutti quei ragazzi che lavorano per cinquecento euro al mese, e con quei soldi riescono a pagare solo l’affitto e la metropolitana, che cose pensate? Forse il primo pensiero è che viviamo in una società incivile. Non può essere giudicato civile, un sistema che si basa sulla rassegnazione collettiva. Una rassegnazione indotta da qualcosa, qualcuno che non vediamo, non conosciamo, un manipolatore virtuale. Bene! In questa epoca virtuale, di sopportazione, in questa epoca nella quale la speranza viene venduta con il costo di un master o di un dottorato, in quest’epoca nella quale le illusioni di un futuro migliore sono commercializzate ad un prezzo accessibile a tutti, con lo stesso meccanismo di una chiesa evangelica, in questo tempo di truffa, e di commercializzazione dell’anima, insomma, in questa epoca dell’essere o non essere online, il rivoluzionario è colui che torna all’origine. E’ colui che sente il richiamo di quel luogo che gli ha dato i natali, di quel posto lontano fatto di piaceri semplici, d’ironia. Il rivoluzionario di oggi, è colui che vive giorno per giorno, spensierato, in un posto che gli permette di riflettere, di acquisire forze, energie, respirando salsedine, all’ombra di un ulivo!

venerdì 15 luglio 2011

Vivere è un atto di sopravvalutazione


Vivere è un atto di sopravvalutazione. Se l'essere umano non sopravvalutasse tutto ciò che gli ruota attorno, anche le piccole cose, i così detti piccoli gesti, l'uomo non potrebbe sopravvivere. Si renderebbe conto che tutto ciò per cui vive è paragonabile al niente. Il niente è la paura più sopravvalutata dall'uomo. Se vivessimo consapevoli che spesso, le cose che facciamo sono piccole azioni umane prive di valore, di significato, nessuno di noi riuscirebbe a svegliarsi ogni giorno, alzarsi dal letto e uscire. Solo sopravvalutando le cose, riusciamo a reagire. La sopravvalutazione è il principio di ogni illusione; e l'illusione è il principio base di ogni esistenza, senza di essa l'uomo non si distinguerebbe dall'animale. Attraverso lo strumento della ragione, riusciamo a sopravvalutare la vita, ad illuderci come bambini che osservano un prestigiatore in un circo. Pensate alle palestre piene, alle cure dimagranti, ai manager che parlano di azioni, alle hostess, ai camerieri, ai facchini, a tutto ciò che vi viene in mente, e osservando bene, vi renderete conto che quelle persone attuano una precisa azione solo perchè - per qualche dinamica inconscia - hanno sopravvalutato l'azione stessa. Vivere è un atto di sopravvalutazione. E se parliamo di principio e di fine, la morte, tra tutti i finali possibili, è quello più sopravvalutato.

D.I

mercoledì 13 luglio 2011

Premiazione "Seconda Giornata della Gioventù"


Desidero ringraziare l'associazione MOFOS, che ieri sera durante la "Seconda Giornata della Gioventù" tenutasi all'anfiteatro comunale di Castrolibero, mi hanno consegnato un premio per gli ambiti "letterari e recitativi".
Grazie!

D.I

martedì 12 luglio 2011

Benvenuti e Arrivederci!

Il titolo di questo blog, rende omaggio al film di Luciano De Crescenzo "Così Parlò Bellavista", e al personaggio del "Poeta" interpretato dal grande Gerardo Scala. Omaggiare qualcuno con un "pensiero poetico" è un atto di civiltà, di giustizia; una battaglia contro le barbarie del mondo.
N.B
(Molto probabilmente questo blog non avrà più di due post! Perchè è bello creare, ed è bello lasciare ciò che si è creato all'abbandono. L'abbandono è il senso! Innamorasi e abbandonare il proprio amore in qualche parte del mondo, senza spiegazioni, non ha prezzo, per tutto il resto, ci sono le puttane!)